Whistleblower, la giusta causa non può celare il licenziamento ritorsivo

A cura dell’Ufficio Stampa
uff.stampa@confartigianatofc.it

LA NEWSLETTER DI CONFARTIGIANATO FEDERIMPRESA CESENA DEDICATA ALLA PRIVACY, uno strumento facile e veloce per rimanere sempre aggiornati in tema di privacy.

Una delle caratteristiche principali della normativa sul whistleblowing, recentemente modificata e rafforzata dal Dlgs 24/2023, è la protezione del segnalatore. In altre parole, si vogliono incoraggiare i dipendenti, i fornitori, i clienti e i collaboratori dell’impresa a segnalare possibili atti illeciti compiuti sia a danno sia a favore dell’impresa stessa, senza che chi si è preso l’onere di farlo abbia a temere vendette, salvo che abbia agito senza avere “fondato motivo” di ritenere le informazioni veritiere nonché rientranti nel perimetro della disciplina. 

A corredo del divieto di ritorsione, l’articolo 17 del Dlgs 24/2023 fornisce un elenco non esaustivo ma comunque molto dettagliato delle fattispecie che possono essere considerate misure illegittime. Tra queste si annoverano il licenziamento, la sospensione, la retrocessione di grado, la mancata promozione, la riduzione dello stipendio, il cambiamento del luogo di lavoro, l’adozione di misure disciplinari, le note di merito negative ma anche comportamenti più di sostanza come la coercizione, l’intimidazione, le molestie, l’ostracismo, il “trattamento sfavorevole” (che è una locuzione onnicomprensiva) piuttosto che i danni reputazionali sui social media o il mancato rinnovo di un contratto. Naturalmente, tale protezione non deve diventare una facile scorciatoia per chi è sottoposto a misure negative per tutt’altri motivi per poter addurre motivazioni ritorsive e quindi l’illiceità dell’atto, quando invece esso è determinato, ad esempio, da sua negligenza o da oggettiva necessità della società.

Molto interessante è quindi la sentenza della Corte di cassazione 12688/2024 del 9 maggio che ha deciso un caso in cui l’ex Cfo di un’azienda municipalizzata è stato licenziato per giusta causa, mentre il ricorrente ha contestato il licenziamento adducendo che esso era stato comminato in realtà per vendicarsi della sua attività di whistleblower.

I giudici di primo grado e di appello avevano tuttavia recepito le difese della società, la quale affermava che si era venuto a interrompere il rapporto di fiducia con il dirigente, licenziato in tronco per non aver curato l’impugnativa di un avviso di accertamento di 4 milioni di euro notificato all’azienda. Di tutt’altro avviso il ricorrente, il quale, al contrario, contestava la natura ritorsiva del provvedimento a causa di suoi precedenti rapporti «all’Anac e alla Procura della Corte dei conti dove denunciava presunte irregolarità riferibili ai vertici aziendali», asserendo che i giudici di merito non avevano tenuto nella dovuta considerazione questa circostanza.

I giudici della Suprema corte si sono esercitati in una accurata disamina degli elementi di fatto che hanno portato alla misura di interruzione del rapporto di lavoro, concludendo che dalle procure rilasciate al dirigente non si evinceva, se non in modo molto stiracchiato, che egli avrebbe dovuto agire nel senso preteso dall’azienda speciale, né specificato quali poteri il predetto avrebbe dovuto esercitare e con quali modalità e tempistiche. Peraltro, il provvedimento espulsivo faceva seguito a una serie di atti di ridimensionamento del dirigente, sempre causati dalla sua attività di segnalazione.

La Corte ricorda come anche in recenti pronunce (Cassazione 6838/2023, 26395/ 2022) sia stato precisato che, in ogni caso, in tema di licenziamento ritorsivo, l’accertamento della domanda di nullità è subordinata alla verifica che «l’intento di vendetta abbia avuto efficacia determinativa esclusiva nella volontà di risolvere il rapporto di lavoro», anche rispetto ad altri fatti che integrino giusta causa o giustificato motivo, senza poter fare esercizi di comparazione tra le «diverse ragioni causative del recesso».

Insomma, se c’è una giusta causa è inutile lamentarsi della presenza di un fine ritorsivo. Ma, nella sentenza in commento, i giudici della Cassazione, procedendo a una ricostruzione che è difficile non definire di fatto oltre che di diritto, hanno concluso che tale giusta causa non c’era. La lezione da trarre è abbastanza ovvia: la giurisprudenza potrebbe imboccare una via di analisi molto granulare e puntigliosa dei motivi dietro a qualsiasi provvedimento che possa essere considerato ritorsivo (anche un semplice cambio di mansioni) nei confronti di chi ha segnalato presunti illeciti ai sensi della normativa whistleblowing. È bene che imprenditori e direzioni del personale ne prendano nota.

Fonte: Il Sole 24 Ore – di Alessandro De Nicola